L'Olimpiadi di Roma, l'anniversario degli ultimi giochi a dimensione umana

L'Olimpiadi di Roma, l'anniversario degli ultimi giochi a dimensione umana

di Marco Lobasso
Oggi, 59 anni fa, l’Olimpiade di Roma iniziò la sua meravigliosa avventura, assegnando le prime due medaglie d’oro nello sport del ciclismo. Ogni fine estate, dopo quella del 1960, è un’occasione bellissima per ricordare quella grande Olimpiade, l’unica nella Capitale, l’ultima a dimensione d’uomo. Dopo non fu più così, il gigantismo olimpico prese il sopravvento, e comanda ancora oggi, nonostante gli sforzi del Cio di assegnare i Giochi a città che hanno già gran parte di impianti e strutture pronte per le manifestazioni. L’Olimpiade di Roma fu una perla di un periodo italiano senza precedenti, quello della rinascita dopo le drammatiche stagioni della seconda guerra mondiale, quello della ritrovata credibilità di una Nazione che in guerra aveva sbagliato tutto e che in Europa veniva ancora osservata con scetticismo. Invece, l’Italia riuscì nell’impresa, in politica, grazie a un Governo decisamente illuminato, nello sport grazie a un dirigente con le stimmate del fuoriclasse, Giulio Onesti, capo dello sport italiano in quegli anni. Il 25 agosto allo stadio Olimpico l’emozionante cerimonia d’apertura, un giorno dopo, oggi, 59 anni fa, le prime gare, i primi ori, i primi inni nazionali. 

Di quella meravigliosa Olimpiade a dimensione d’uomo restano mille ricordi e bibliografia e cinematografia ricca e di spessore. Berruti, Cassius Clay, Benvenuti, Wilma Rudolph per citare gli atleti diventati miti in quei diciotto giorni di gare, amicizia e gioventù. Ma uno in particolare resta e resterà nella mente degli sportivi italiani. E beati quei romani che quella sera di settembre, all’Arco di Costantino, c’erano e per tutta la vita hanno poi raccontato cn orgoglio: “io c’ero”. Roma scoprì Abebe Bikila e l’Africa nera ai Giochi olimpici. Un maratoneta scalzo vinse la medaglia d’oro insegnando all’Italia che lo sport va oltre le vendette, le rivendicazioni, le mostruosità dei popoli in guerra. E in un attimo furono messi da parte per sempre i ricordi degli assurdi tentativi di conquista e colonizzazione degli anni del Fascio, quel grottesco impero che Mussolini voleva creare. Bikila dava finalmente luce nuova e splendente al nome di una nazione chiamata Abissinia e poi Etiopia.

Abebe Bikila era un militare serio e compassato, magro e agile come nessuno; sconosciuto a più; vinse la maratona di Roma in una sera fresca di fine estate. E nulla fu più come prima. La sua storia è nei libri, nei film, nei documentari che raccontano la sua incredibile vita, ma è in quella sua corsa leggera e magica di 42 chilometri per le strade della Capitale, illuminate di sera da suggestive torce, sulle pietre della via Appia, fino all’Arco di Costatino, che Bikila ha costruito il suo mito senza fine. E se c’è un Destino già scritto per ognuno di noi, quel giorno il corridore etiope il suo Destino lo scrisse tutto di getto. Attaccò per vincere la maratona quando passò di fianco al monumento dell’Obelisco di Axum, che, ironia della sorte, era stato portato fin lì dall’Etiopia, dall’esercito d’occupazione italiano. Non sapremo mai se fu una coincidenza. Ma Bikila attaccò in quel punto, staccò tutti e vinse, fece ginnastica subito dopo, come nulla fosse accaduto, e in tanti applaudirono senza parole quell’impresa sublime. Ma lo fecero con gli occhi bassi, vergognandosi del passato. 

A Roma, cinquant'anni dopo la sua impresa, nel 2010, di fronte all'ingresso del Palatino è stata apposta una terga in memoria sua e della sua corsa infinita.
Ultimo aggiornamento: Lunedì 26 Agosto 2019, 20:37
© RIPRODUZIONE RISERVATA