Matias Perdomo «La mia cucina senza menù dove l'armonia è il contrasto»

Matias Perdomo «La mia cucina senza menù dove l'armonia è il contrasto»

di Rita Vecchio
Piatti come fossero cortometraggi e meno menu. Matias Perdomo è lo chef che ha capovolto il punto di vista. Sincerità, contrapposizione e armonia da Contraste, il suo ristorante stellato a Milano dove una volta c'era una pellicceria. Con lui, il sous-chef Simon Press e il maitre Thomas Piras, il migliore secondo la guida dell'Espresso.

Che ci fa un uruguaiano in Italia?
«Cucina da quasi 20 anni. Con poca nostalgia e tanta voglia di scoprire»

Ma come ci è arrivato?
«Grazie a Juan Lema, chef che allora era al Pont de Ferr di Milano. Mi telefonava a qualsiasi ora del giorno e della notte per convincermi a partire. E mi prese in un momento in cui facevo incubi, in cui volevo provare altro».

Incubi?
«Sempre gli stessi: un bambino europeo che mi diceva che non sapevo fare nulla. In quegli anni ero diventato in poco tempo quello che non ero. Ogni sabato raccontavo in tv una ricetta, curavo le aperture di un format di panini e pasta fresca che da chiosco nel quartiere finanziario di Montevideo si stava trasformando in una catena. Ma io non ero preparato. Non volevo credermi quello che non ero ed essere un personaggio falso e costruito. Dovevo imparare molto. Quindi ho mollato tutto e sono arrivato a Milano: case basse sui Navigli e nebbia. E io che mi immaginavo una metropoli tutta palazzi».

E la passione?
«Non amavo studiare. Andai a lavorare nella falegnameria di mio zio che produceva giocattoli. Con i soldi guadagnati, frequentavo corsi serali di cucina. Quei corsi per signore, per intenderci. Mi sono appassionato. Il rituale era lo stesso della falegnameria: materia, trasformazione e risultato. Ho iniziato quindi a mandare curriculum falsi».

Tipo?
«Tipo che, siccome da mio zio preparavo biscotti per i bimbi che visitavano la falegnameria di giocattoli, ho scritto che studiavo menu bilanciati per bambini (ride, ndr)».

E venne chiamato?
«Da un albergo di lusso, dall'altra parte del Paese. Mi licenziai dalla falegnameria, mi comprai una camicia nuova e corsi al colloquio. Ma avevo solo 16 anni. E mi spedirono via. Rimasi deluso».

E quindi?
«Avevo capito che volevo fare il cuoco. Andai a lavorare in una gastronomia. Durai una settimana. Seguivo le ricette di un libro, ma con i ravioli non funzionò (ride, ndr). Sul libro mancava la descrizione della macchina per tagliarli. Pasta ovunque, il ripieno di spinaci che usciva da tutte le parti e la proprietaria infuriata. Mi mise a pulire i bagni e mi licenziò immediatamente. Da lì, al catering di ispirazione francese. Qui ho imparato».

Cosa?
«A stravolgere, senza dare per scontato niente. Nemmeno un piatto. Erano i tempi in cui avanguardista era Cracco, insieme a Scabin e a Lo Priore».

La sua cucina?
«È del contrasto. Dove i due opposti trovano armonia, come una fotografia che gioca con bianco e nero, come un cortometraggio. La mia cucina è delle persone che io cerco di ascoltare. Ecco il mio meno menu: come il vecchio oste che non li scriveva ma ti consigliava a voce. Senza dittatura del gusto».

Il suo piatto italiano?
«La pasta. Mi ha ispirato, influenzato e continuo a studiare. Come uno dei piatti storici: riso e pasta, risotto alla milanese dentro il raviolo».

L'hanno criticata?
«Per tutto, per fortuna. Se non criticano significa che non stai facendo nulla di nuovo».

Nella lista del da farsi?
«Continuare a sognare».

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Ultimo aggiornamento: Venerdì 25 Ottobre 2019, 11:01
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