Marchini: «Con la cucina che conquista ho rimorchiato mia moglie»

Marchini: «Con la cucina che conquista ho rimorchiato mia moglie»

di Rita Vecchio
Se a Luca Marchini da piccolo avessero detto che sarebbe diventato chef, non ci avrebbe creduto. Lo stellato di L'erba del re, il suo ristorante a Modena, pensava forse di trascorrere la vita dietro una scrivania. In giacca e cravatta. E invece, ha scelto i fornelli. Con un'ironia travolgente.

Come ci è finito ai fornelli?
«Per gioco. Da ragazzo mi dilettavo a cucinare per amici e parenti. Cucinando, ho pure rimorchiato mia moglie. Ero uno precisino, con camicia rigorosamente abbottonata o polo da fighetto (ride, ndr), laurea in Economia e commercio e un praticantato dal commercialista da iniziare».



Ma?
«Ma quel ragazzo tutto precisino, con i suoi momenti anticonformisti - compreso quello dei capelli lunghi con 72 treccine, per la gioia di mia madre - decise di andare a lavorare in cucina per guadagnarsi nel frattempo due lire. Bussai alla porta dei ristoranti della zona, il primo che aprì fu Massimo Bottura. La mia settimana di prova? A fare insalate. Ma a suon di entusiasmo e senso del gusto, ingredienti con cui Massimo mi ha rapito, e per cui ho messo in discussione il mio futuro. Risultato? Non mi sono più presentato dal commercialista per il praticantato».

E i suoi genitori?
«La presero bene. Pure mio padre, dirigente di banca che oggi con orgoglio mi dice: prima eri il figlio del direttore, e ora sono io il padre dello chef. Senza il loro sostegno morale, non sarei qui».

Così ha cominciato a cucinare.
«Sì. Ero preciso. Immagini la battuta di Bottura dopo avermi visto sistemare gli scampi sulla padella: tutti allineati e in fila per cinque (ognuno ha le sue fisime, lo so). Te potresti cucinare solo in una cucina francese, mi disse. E mi spedì a Parigi, dallo chef Nomicos».

Come è stato?
«Difficile. Ore interminabili di lavoro. Ho appreso il rigore e la gerarchia. Sono tornato più forte. Prima da Bottura, poi da Barbieri. E finalmente, un ristorante mio».

La sua filosofia?
«Una cucina personale ed equilibrata, senza la paura di fare scena per forza. Si deve arrivare prima alla testa e solo dopo, con il palato, al cuore».

Un esempio?
«Il fish burger a base di seppia, nato da un'idea banale del facciamoci un panino. Lo metti in bocca e respiri emozione pura».

Un altro?
«Lo gnocco fritto dolce. Quello per cui il pianista Burt Bacharach esclamò: Again, please. Ancora, per favore! Per tre volte di fila».

Lei è uno allegro. È così anche con la brigata?
«Nella mia cucina mi danno del Lei. Ma mi interessa poco. Voglio un clima affiatato, dove conta l'aspetto umano. La mia cucina è come ero io da giovane: quello con la camicia abbottonata, ma anche quello dei capelli con le treccine. Divertimento, sì. E rigore, pure».

La sua sfida?
«La ristorazione collettiva. Chef in Ospedale è il progetto con il Carlo Poma di Mantova, per studiare un menu ragionato anche in queste strutture. Prossimo step, le scuole. Ci ho provato, ma ci si scontra con genitori che si aspettano per i loro figli solo lasagne e hamburger. Spero di portarlo a termine. Un giorno».
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Ultimo aggiornamento: Venerdì 19 Luglio 2019, 20:07
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