Davide Guidara: «Alici e musica in cucina. E vorrei aprire una scuola»

Davide Guidara: «Alici e musica in cucina. E vorrei aprire una scuola»

di Rita Vecchio
Fuochi accesi per Davide Guidara. Il nome di questo chef di 25 anni gira sempre di più. Origini campane, trapiantato in Sicilia, da pochi mesi alla guida della cucina del Sum di Catania - ristorante del Romano Palace Luxury Hotel - diventato nicchia della sua creatività. Senza tante acrobazie e senza dovere stupire a tutti i costi, nei suoi piatti ci sono due ingredienti imprenscindibili: l'essenziale e il gusto.
Com'è stare con gli occhi puntati?
«Mi eccita da morire. Mi spinge a fare di più. Ad alzare l'asticella. Una sfida, insomma».
Che ci fa un campano in Sicilia?
«Arrivato per casualità. Anche se le mie origini sono siciliane per parte di padre, maresciallo dei Carabinieri. Credo di essere nel posto giusto: noi ragazzi stiamo contaminando il Mediterraneo. Con idee e voglia di cambiare le cose».
Come è arrivato in cucina?
«Mia madre racconta che un giorno, avevo 9 anni, sono entrato in casa e ho detto che da grande avrei fatto lo chef. Non è che l'idea gli piacque. Fu mio padre che mi appoggiò di più. Ora sono entrambi molto contenti. Sono sempre stato curioso. Mi piaceva creare».
La sua prima volta in cucina?
«Al Foro dei baroni, un'osteria dell'entroterra in provincia di Benevento, dove sono cresciuto, dalla cucina gourmet con lo chef Raffaele D'addio. È il posto dove sognavo, dove immaginavo di conoscere Ferran Adrià e dove ho mosso i primi passi. Mi ricordo una frase dello chef che mi porto dietro: le favole si riducono a quando il cliente mette il cucchiaio in bocca».
Che significa?
«Che tutto è essenziale e che si restringe al gusto. Un piatto lo si può raccontare per ore, ma quello che conta è il sapore».
Lei ha girato molto. Da Nino Di Costanzo ad Alfonso Iaccarino, da Michel Bras a René Redzepi. Esperienze difficili?
«Tante. Ma belle. Mi ricordo quando per un po' di sabbia nelle vongole mi fecero pulire un garage intero con acqua, candeggina e spazzolone. Ci rimasi malissimo».
Come rispose?
«Con i fatti. Ho finito più tardi rispetto agli altri e fui il primo la mattina dopo ad arrivare. Potevano farmi di tutto, ma il mio obiettivo era più grande di ogni cosa».
Cosa non manca mai nella sua cucina?
«La musica. Dalla classica alla metal, dal punk rock alla strumentale contemporanea. Tranne rap e trap, mentre cucino ascolto tantissimo».
Una musica da cui nasce un piatto?
«La colonna sonora del film di Paolo Sorrentino, La Grande Bellezza. Per me The beatitudes di Vladimir Martynov ha ispirato le Alici marinate che si trova sempre nel menu. Uno dei miei piatti preferiti (ne potrei mangiare a chili)».
Se le chiedessi di riassumere la sua filosofia?
«Essenziale e di gusto. Nessun dogma. Nessun canone. Non seguo le regole del croccante o dell'acido a tutti i costi. Da me vince il gusto. Quello che esce dalla cucina deve essere estremamente buono. Zuppa di fagioli, lenticchie con le cozze o la melanzana alla parmigiana senza pomodoro secondo l'antica ricetta con pane e pecorino. Da me non ci sono abbinamenti fuori di testa».
Un sogno?
«Aprire una scuola di cucina. Mi incuriosisce fare scuola di pensiero».

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Ultimo aggiornamento: Venerdì 17 Gennaio 2020, 07:58
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