Napoli ostaggio dei «baby guerrieri»: raid e sangue per accreditarsi ai clan

Napoli ostaggio dei baby guerrieri: sangue per accreditarsi ai clan

di Pietro Treccagnoli
Napoli non è una città per giovani. Tra vittime e carnefici, ai limiti o sotto la maggiore età, la cronaca delle ultime settimane sta dipingendo un quadro fosco e losco. La narrazione si è trasformata in una dannazione. È violenza che tracima e si spande a macchia d’olio imbrattando di sangue tutti i quartieri. Non esiste più un’oasi, semmai c’è mai stata. È Napoli svelata, altro che i paramenti sacri dell’oleografia o la sublimazione feroce di fiction smerciate in mezzo mondo. La realtà, innanzitutto. Napoli violenta e Napoli violentata. Uno stupro nella carne e nell’anima. E la cruda tensione la si legge nelle parole che si accumulano nei giornali, in televisione, sui social, ma prima di tutto nelle facce dei giovani e di chi i giovani frequenta. A via Foria, a Chiaia, al Vomero, a Forcella. In meno di venti giorni, s’è assistito a un crescendo maledetto tra bastonate, stese, accoltellamenti, pistolettate. Una miscela dove la criminalità spicciola, quella organizzata, i branchi in preda alla lite gratuita e gli aspiranti camorristi che marcano il territorio si danno il cambio o si affiancano.

Il semplice elenco di raid e aggressioni è da brivido. Come lo sono persino le spiegazioni, gli interrogativi che si aggrovigliano senza risposte illuminanti in un gomitolo di chiacchiere. La città dei giovani è la città che sbaglia i conti con il futuro, ma pure con il presente. Che si prende a mano armata il presente perché non vede il futuro. E chi ha di fronte questo scenario da guerrieri della notte si chiede qual è il dosaggio giusto tra repressione e prevenzione. Il più recente salto di qualità, quello che ha segnato la lettura e il racconto della Napoli illegale e criminale, c’è stato lo scorso novembre, quando trenta ragazzi provvisti di bastoni e coltelli hanno fatto irruzione nella zona dei Baretti di Chiaia, seminando panico e feriti e generando una reazione a colpi di pistola. 

Da allora, è stata una corsa a ostacoli, fino all’ennesimo accoltellamento sabato passato a via Carducci, nei pressi del liceo Umberto, a ridosso del quadrilatero del borgo di Chiaia; fino all’annuncio della marcia per la legalità anticamorra e la vivibilità cittadina organizzata per sabato prossimo dai comitati del quartiere che fu borghese e ora si sente assediato; fino all’identificazione della banda che, il 17 dicembre a piazza Vanvitelli, cuore del Vomero, ha ferito due ragazzi per uno sguardo di troppo; fino al saccheggio dei computer del liceo Pansini, sempre al Vomero, scoperto alla riapertura delle scuole dopo le vacanze natalizie; fino alla gambizzazione di un diciassettenne, l’altra notte, a porta San Gennaro, a poche centinaia di metri dal luogo dove il 18 dicembre, il giovane Arturo, ormai simbolo della voglia di riscatto, è stato quasi ucciso a colpi di coltello da un gruppetto di minorenni. E in mezzo c’è proprio il ferimento dello studente del Cuoco, il liceo dei Miracoli, poco prima di Natale, con la mobilitazione che è scattata segnando un primo forte passo nella mobilitazione delle coscienze e ci sono le baldanzose sparatorie dell’ultimo dell’anno in diversi quartieri di Napoli.

Ecco, manca il fiato, si finisce in apnea solo a tracciare la linea rossa. E non si capisce dove porterà. In questi due mesi scarsi la città si è seduta davanti a un specchio, ha provato a capire. E sono due i poli dentro i quali oscilla l’ordine del discorso: questa scia di violenza di chi non ha l’età è solo frutto del disagio o è la tappa iniziale di un percorso di affiliazione al Sistema, nel grande gioco di Gomorra? «La paranza dei bambini non è una invenzione giornalistica, ma un dato reale» ha spiegato ieri Raffaele Cantone, presidente dell’Anac, a chi lo interrogava per l’ennesima volta sull’emergenza delle baby gang. «C’è un problema soprattutto di prevenzione. Che a Napoli ci fosse una criminalità minorile particolarmente forte non l’abbiamo scoperto oggi, abbiamo verificato per esempio in passato come persino all’interno della camorra ci fossero tantissimi ragazzini». Le risposte devono venire dalla «scuola e i momenti educativi devono fare la loro parte».

 

Sulla stessa linea è il sociologo Luigi Caramiello: «È improponibile pensare che la nuova medialità (fiction, social e tutto il resto), abbia un’influenza determinante sulla violenza esplosa con tale forza. La violenza che viene rappresentata sugli schermi esiste nella realtà e esisteva prima della sua rappresentazione». Nasce da un brodo di coltura, da una zona grigia che la lunga crisi economica ha allargato. «Alla base» continua Caramiello «c’è l’alta percentuale di disoccupazione e di evasione scolastica e un reddito pro capite medio che è meno della metà di quelle delle aree del Paese più sviluppate». Povertà e disagio non spiegano tutto, non esauriscono l’analisi. «I giovani delle grandi metropoli del Sud» insiste il sociologo «vivono in un clima di spaesamento. In particolare nelle famiglie meno abbienti, con i genitori e la scuola che non esercitano la propria funzione naturale». 

E punta il dito proprio sulla scuola e sui modelli educativi: «C’è un lassismo generalizzato che talvolta si ammanta di ideologia, ma è solo permissivismo distorto». Ma spesso il branco è composto da chi non frequenta nessuna scuola e non frequenta nemmeno la famiglia perché non c’è, è scoppiata. «Ma necessariamente dalla scuola e dalla famiglia occorre partire» ammette Luigi Calemme, parroco dell’Annunziata Maggiore, a due passi da Forcella e dalla Duchesca. In questo dedalo di vicoli e bassi, come in tutti i quartieri popolari del centro di Napoli, la dissoluzione, lo smarginamento dei nuclei familiari rischia di diffondersi come un’epidemia. «C’è però una maggioranza di famiglie sane» sottolinea il sacerdote «che fanno enormi sacrifici economici per tirare su i figli e tenerli lontani dalla violenza e dalla criminalità e sanno che il disagio non è un alibi per comportamenti deviati. Bisogna puntare su di loro».

Ma fino a quando resisteranno? C’entrano naturalmente i modelli culturali distorti che hanno radici lontane. Lo sguardo di troppo che fa tirare fuori i coltelli, come sarebbe accaduto al Vomero, è solo un pretesto. «Nella mente e nei comportamenti di questi ragazzi» ribadisce Calemme «manca un argine morale. La violenza è dentro di loro e deve esplodere». Pure l’esibizione gioca la propria parte. «Il branco» aggiunge Caramiello «si rafforza nella lotta, nell’aggressione, nel raid, perché il guappo e il camorrista in certi ambienti è storicamente un modello vincente, seducente, che fa colpo sulle coetanee». 

A insistere sull’alto gradiente criminale è Enzo Perrotta, presidente del Centro Commerciale Vomero-Arenella, da sempre attento osservatore delle dinamiche della strada e solerte nel lanciare allarmi sul degrado della vita nel quartiere collinare. «Dove si sviluppa la movida arrivano le bande che non vengono solo per esibirsi, ma per marcare il territorio, per impossessarsene, per i propri traffici. Devono impiantare piazze di spaccio dove ci sono i loro clienti» denuncia senza mezzi termini. «Se prima chi cercava la droga doveva spostarsi a Scampia o al Rione Traiano, adesso gli stupefacenti vengono portati direttamente dove i consumatori vivono o vanno a divertirsi». Servizio a domicilio. «La violenza giovanile è anche intrecciata allo spaccio» ragiona Caramiello. «Ma da tempo c’è un abbassamento del livello. Non si combatte più per un mercato illegale milionario, ma per poche migliaia di euro. Si vende meno, perché ci sono meno soldi da spendere. La battaglia diventa così palmo a palmo, serrata. E i minorenni agganciati dalla camorra organizzata sono solo dei birilli, i primi ad essere abbattuti quando si scatenano le faide». Per loro il successo è una lotteria: «Effettivamente la possibilità di emergere nel Sistema, senza finire in galera o sottoterra, sono pari a quella di una vincita al Superenalotto».

La violenza di strada può essere un’esercitazione per accreditarsi nel mondo apparentemente dorato della camorra? Calemme non ha dubbi: «Ne è certamente l’anticamera, perché quando i ragazzi impugnano armi, il fosso è stato saltato. Non è più microcriminalità ma criminalità organizzata». Che reagisce anche alla repressione, a modo suo. È accaduto a via Aniello Falcone. Lo ricostruisce Perrotta: «Dopo gli interventi delle forze dell’ordine, la movida e il caos che bloccava la strada e portava all’esasperazione i residenti, si era tornati al tollerabile clima degli anni Settanta. Ma quasi subito è scattata la rappresaglia dei giovani delinquenti estromessi dagli affari. Se la sono presa di notte con le auto in sosta, fracassando lunotti, bucando le ruote, rompendo specchietti». Se non si trovano corpi da ferire, si sfasciano i beni e i simboli del benessere minimo. Perché la miglior vendetta è la vendetta.
Ultimo aggiornamento: Martedì 9 Gennaio 2018, 08:20
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